Sintesi della ricerca
Il conflitto e la memoria
La prima guerra mondiale fu la prima guerra “moderna”, la prima a dispiegare al più alto livello le capacità di distruzione di massa. Al termine degli anni di combattimento, il bilancio di vite umane sacrificate fu – anche per una nazione come l’Italia che pure si vantava di essere tra le vincitrici – elevatissimo. L’immane tragedia non lasciò indenne alcuna parte della nazione, né dal punto di vista territoriale né da quello sociale: tutte le città, tutti paesi, tutte le parrocchie, quasi tutte le famiglie ebbero i loro morti, mutilati, feriti, dispersi. Non può quindi stupire che il desiderio di “ricordare” gli avvenimenti e le persone nascesse quasi spontaneo dal profondo del cuore della gente.
Un desiderio di memoria che si tramutò con grande rapidità in riunioni, associazioni, organizzazioni, in richieste, proposte, progetti.
Nell’incandescente situazione sociale e politica del periodo postbellico, il “culto dei caduti” fu una questione centrale; intorno alle spoglie ancora calde si giocò uno scontro di fondamentale importanza sui simboli: i morti erano “martiri” della vittoria oppure “vittime” della guerra?
Nessuna parte politica – dalla destra alla sinistra – fu mai indifferente al richiamo degli innumerevoli lutti, ma sul loro significato la divaricazione fu radicale, e anzi progressivamente sempre più profonda e inconciliabile.
Il blocco politico-sociale che sarebbe poi sfociato nel regime fascista fece con rapidità una scelta che si rivelò vincente (e che anzi per certi versi venne a costituire un elemento fondativo dell’immaginario reazionario): declinò quel culto in chiave nazionalista - bellicista - maschilista.
Giorno dopo giorno, lapide dopo lapide, monumento dopo monumento, la celebrazione dei morti si trasformò in costruzione di un’ideologia nazionale asservita alle esigenze del nascente movimento fascista.
All’inizio la resistenza da parte del movimento socialista, cooperativo, libertario fu piuttosto forte: non pochi furono i monumenti eretti in memoria delle vittime al di fuori della retorica filofascista; ma col passare dei mesi le possibilità di opporsi all’omologazione di regime si ridussero progressivamente e una parvenza di “memoria” alternativa restò patrimonio delle donne (le madri, le spose, le figlie), protagoniste del “culto”, pur senza una vera possibilità di dettarne i riti.
La memoria della guerra fu un fenomeno di durata considerevole: dall’indomani della vittoria fin verso la metà degli anni Trenta, con un picco nella prima metà degli anni Venti.
Le esperienze comasche
I caduti in Lombardia furono ufficialmente 80.108. In provincia di Como 5.700 (a cui bisogna aggiungere, per avere il quadro completo dei morti intorno al Lario, i 2.937 del territorio lecchese, per un totale di 8.637).
A questi corrispondono non meno di 312 luoghi di memoria nell’attuale provincia di Como – intendendosi con tale dizione l’estensione amministrativa seguita alla separazione della provincia di Lecco. Si tratta di un complesso assai eterogeneo: monumenti, lapidi, cappelle, edifici vari.
La ricerca ha permesso di ricostruire una realtà storica assai complessa e anche contraddittoria.
Di notevole interesse dal punto di vista storico-artistico (l’insieme dei monumenti si configura come un vero e proprio museo all’aperto della scultura dei decenni tra anni Venti e Sessanta, con la presenza anche di grandi artisti), comunicativo (con i differenti modelli di retorica e di celebrazione), storico in senso stretto.
Anche a Como si possono quindi seguire le dinamiche nazionali ed europee del fenomeno, sia nella fondamentale affermazione dei modelli nazionalisti, sia nei tentativi di opposizione e ridefinizione della celebrazione (contrariamente a quanto si crede, non sono pochi gli esempi “comaschi” di monumenti alternativi), sia ancora nelle diverse fasi temporali, fino ai più recenti esempi che si propongono come opere sulla guerra per la pace.
Sintesi della ricerca
Il conflitto e la memoria
La prima guerra mondiale fu la prima guerra “moderna”, la prima a dispiegare al più alto livello le capacità di distruzione di massa. Al termine degli anni di combattimento, il bilancio di vite umane sacrificate fu – anche per una nazione come l’Italia che pure si vantava di essere tra le vincitrici – elevatissimo. L’immane tragedia non lasciò indenne alcuna parte della nazione, né dal punto di vista territoriale né da quello sociale: tutte le città, tutti paesi, tutte le parrocchie, quasi tutte le famiglie ebbero i loro morti, mutilati, feriti, dispersi. Non può quindi stupire che il desiderio di “ricordare” gli avvenimenti e le persone nascesse quasi spontaneo dal profondo del cuore della gente.
Un desiderio di memoria che si tramutò con grande rapidità in riunioni, associazioni, organizzazioni, in richieste, proposte, progetti.
Nell’incandescente situazione sociale e politica del periodo postbellico, il “culto dei caduti” fu una questione centrale; intorno alle spoglie ancora calde si giocò uno scontro di fondamentale importanza sui simboli: i morti erano “martiri” della vittoria oppure “vittime” della guerra?
Nessuna parte politica – dalla destra alla sinistra – fu mai indifferente al richiamo degli innumerevoli lutti, ma sul loro significato la divaricazione fu radicale, e anzi progressivamente sempre più profonda e inconciliabile.
Il blocco politico-sociale che sarebbe poi sfociato nel regime fascista fece con rapidità una scelta che si rivelò vincente (e che anzi per certi versi venne a costituire un elemento fondativo dell’immaginario reazionario): declinò quel culto in chiave nazionalista - bellicista - maschilista.
Giorno dopo giorno, lapide dopo lapide, monumento dopo monumento, la celebrazione dei morti si trasformò in costruzione di un’ideologia nazionale asservita alle esigenze del nascente movimento fascista.
All’inizio la resistenza da parte del movimento socialista, cooperativo, libertario fu piuttosto forte: non pochi furono i monumenti eretti in memoria delle vittime al di fuori della retorica filofascista; ma col passare dei mesi le possibilità di opporsi all’omologazione di regime si ridussero progressivamente e una parvenza di “memoria” alternativa restò patrimonio delle donne (le madri, le spose, le figlie), protagoniste del “culto”, pur senza una vera possibilità di dettarne i riti.
La memoria della guerra fu un fenomeno di durata considerevole: dall’indomani della vittoria fin verso la metà degli anni Trenta, con un picco nella prima metà degli anni Venti.
Le esperienze comasche
I caduti in Lombardia furono ufficialmente 80.108. In provincia di Como 5.700 (a cui bisogna aggiungere, per avere il quadro completo dei morti intorno al Lario, i 2.937 del territorio lecchese, per un totale di 8.637).
A questi corrispondono non meno di 312 luoghi di memoria nell’attuale provincia di Como – intendendosi con tale dizione l’estensione amministrativa seguita alla separazione della provincia di Lecco. Si tratta di un complesso assai eterogeneo: monumenti, lapidi, cappelle, edifici vari.
La ricerca ha permesso di ricostruire una realtà storica assai complessa e anche contraddittoria.
Di notevole interesse dal punto di vista storico-artistico (l’insieme dei monumenti si configura come un vero e proprio museo all’aperto della scultura dei decenni tra anni Venti e Sessanta, con la presenza anche di grandi artisti), comunicativo (con i differenti modelli di retorica e di celebrazione), storico in senso stretto.
Anche a Como si possono quindi seguire le dinamiche nazionali ed europee del fenomeno, sia nella fondamentale affermazione dei modelli nazionalisti, sia nei tentativi di opposizione e ridefinizione della celebrazione (contrariamente a quanto si crede, non sono pochi gli esempi “comaschi” di monumenti alternativi), sia ancora nelle diverse fasi temporali, fino ai più recenti esempi che si propongono come opere sulla guerra per la pace.
Sintesi della ricerca
Il conflitto e la memoria
La prima guerra mondiale fu la prima guerra “moderna”, la prima a dispiegare al più alto livello le capacità di distruzione di massa. Al termine degli anni di combattimento, il bilancio di vite umane sacrificate fu – anche per una nazione come l’Italia che pure si vantava di essere tra le vincitrici – elevatissimo. L’immane tragedia non lasciò indenne alcuna parte della nazione, né dal punto di vista territoriale né da quello sociale: tutte le città, tutti paesi, tutte le parrocchie, quasi tutte le famiglie ebbero i loro morti, mutilati, feriti, dispersi. Non può quindi stupire che il desiderio di “ricordare” gli avvenimenti e le persone nascesse quasi spontaneo dal profondo del cuore della gente.
Un desiderio di memoria che si tramutò con grande rapidità in riunioni, associazioni, organizzazioni, in richieste, proposte, progetti.
Nell’incandescente situazione sociale e politica del periodo postbellico, il “culto dei caduti” fu una questione centrale; intorno alle spoglie ancora calde si giocò uno scontro di fondamentale importanza sui simboli: i morti erano “martiri” della vittoria oppure “vittime” della guerra?
Nessuna parte politica – dalla destra alla sinistra – fu mai indifferente al richiamo degli innumerevoli lutti, ma sul loro significato la divaricazione fu radicale, e anzi progressivamente sempre più profonda e inconciliabile.
Il blocco politico-sociale che sarebbe poi sfociato nel regime fascista fece con rapidità una scelta che si rivelò vincente (e che anzi per certi versi venne a costituire un elemento fondativo dell’immaginario reazionario): declinò quel culto in chiave nazionalista - bellicista - maschilista.
Giorno dopo giorno, lapide dopo lapide, monumento dopo monumento, la celebrazione dei morti si trasformò in costruzione di un’ideologia nazionale asservita alle esigenze del nascente movimento fascista.
All’inizio la resistenza da parte del movimento socialista, cooperativo, libertario fu piuttosto forte: non pochi furono i monumenti eretti in memoria delle vittime al di fuori della retorica filofascista; ma col passare dei mesi le possibilità di opporsi all’omologazione di regime si ridussero progressivamente e una parvenza di “memoria” alternativa restò patrimonio delle donne (le madri, le spose, le figlie), protagoniste del “culto”, pur senza una vera possibilità di dettarne i riti.
La memoria della guerra fu un fenomeno di durata considerevole: dall’indomani della vittoria fin verso la metà degli anni Trenta, con un picco nella prima metà degli anni Venti.
Le esperienze comasche
I caduti in Lombardia furono ufficialmente 80.108. In provincia di Como 5.700 (a cui bisogna aggiungere, per avere il quadro completo dei morti intorno al Lario, i 2.937 del territorio lecchese, per un totale di 8.637).
A questi corrispondono non meno di 312 luoghi di memoria nell’attuale provincia di Como – intendendosi con tale dizione l’estensione amministrativa seguita alla separazione della provincia di Lecco. Si tratta di un complesso assai eterogeneo: monumenti, lapidi, cappelle, edifici vari.
La ricerca ha permesso di ricostruire una realtà storica assai complessa e anche contraddittoria.
Di notevole interesse dal punto di vista storico-artistico (l’insieme dei monumenti si configura come un vero e proprio museo all’aperto della scultura dei decenni tra anni Venti e Sessanta, con la presenza anche di grandi artisti), comunicativo (con i differenti modelli di retorica e di celebrazione), storico in senso stretto.
Anche a Como si possono quindi seguire le dinamiche nazionali ed europee del fenomeno, sia nella fondamentale affermazione dei modelli nazionalisti, sia nei tentativi di opposizione e ridefinizione della celebrazione (contrariamente a quanto si crede, non sono pochi gli esempi “comaschi” di monumenti alternativi), sia ancora nelle diverse fasi temporali, fino ai più recenti esempi che si propongono come opere sulla guerra per la pace.
Sintesi della ricerca
Il conflitto e la memoria
La prima guerra mondiale fu la prima guerra “moderna”, la prima a dispiegare al più alto livello le capacità di distruzione di massa. Al termine degli anni di combattimento, il bilancio di vite umane sacrificate fu – anche per una nazione come l’Italia che pure si vantava di essere tra le vincitrici – elevatissimo. L’immane tragedia non lasciò indenne alcuna parte della nazione, né dal punto di vista territoriale né da quello sociale: tutte le città, tutti paesi, tutte le parrocchie, quasi tutte le famiglie ebbero i loro morti, mutilati, feriti, dispersi. Non può quindi stupire che il desiderio di “ricordare” gli avvenimenti e le persone nascesse quasi spontaneo dal profondo del cuore della gente.
Un desiderio di memoria che si tramutò con grande rapidità in riunioni, associazioni, organizzazioni, in richieste, proposte, progetti.
Nell’incandescente situazione sociale e politica del periodo postbellico, il “culto dei caduti” fu una questione centrale; intorno alle spoglie ancora calde si giocò uno scontro di fondamentale importanza sui simboli: i morti erano “martiri” della vittoria oppure “vittime” della guerra?
Nessuna parte politica – dalla destra alla sinistra – fu mai indifferente al richiamo degli innumerevoli lutti, ma sul loro significato la divaricazione fu radicale, e anzi progressivamente sempre più profonda e inconciliabile.
Il blocco politico-sociale che sarebbe poi sfociato nel regime fascista fece con rapidità una scelta che si rivelò vincente (e che anzi per certi versi venne a costituire un elemento fondativo dell’immaginario reazionario): declinò quel culto in chiave nazionalista - bellicista - maschilista.
Giorno dopo giorno, lapide dopo lapide, monumento dopo monumento, la celebrazione dei morti si trasformò in costruzione di un’ideologia nazionale asservita alle esigenze del nascente movimento fascista.
All’inizio la resistenza da parte del movimento socialista, cooperativo, libertario fu piuttosto forte: non pochi furono i monumenti eretti in memoria delle vittime al di fuori della retorica filofascista; ma col passare dei mesi le possibilità di opporsi all’omologazione di regime si ridussero progressivamente e una parvenza di “memoria” alternativa restò patrimonio delle donne (le madri, le spose, le figlie), protagoniste del “culto”, pur senza una vera possibilità di dettarne i riti.
La memoria della guerra fu un fenomeno di durata considerevole: dall’indomani della vittoria fin verso la metà degli anni Trenta, con un picco nella prima metà degli anni Venti.
Le esperienze comasche
I caduti in Lombardia furono ufficialmente 80.108. In provincia di Como 5.700 (a cui bisogna aggiungere, per avere il quadro completo dei morti intorno al Lario, i 2.937 del territorio lecchese, per un totale di 8.637).
A questi corrispondono non meno di 312 luoghi di memoria nell’attuale provincia di Como – intendendosi con tale dizione l’estensione amministrativa seguita alla separazione della provincia di Lecco. Si tratta di un complesso assai eterogeneo: monumenti, lapidi, cappelle, edifici vari.
La ricerca ha permesso di ricostruire una realtà storica assai complessa e anche contraddittoria.
Di notevole interesse dal punto di vista storico-artistico (l’insieme dei monumenti si configura come un vero e proprio museo all’aperto della scultura dei decenni tra anni Venti e Sessanta, con la presenza anche di grandi artisti), comunicativo (con i differenti modelli di retorica e di celebrazione), storico in senso stretto.
Anche a Como si possono quindi seguire le dinamiche nazionali ed europee del fenomeno, sia nella fondamentale affermazione dei modelli nazionalisti, sia nei tentativi di opposizione e ridefinizione della celebrazione (contrariamente a quanto si crede, non sono pochi gli esempi “comaschi” di monumenti alternativi), sia ancora nelle diverse fasi temporali, fino ai più recenti esempi che si propongono come opere sulla guerra per la pace.
Sintesi della ricerca
Il conflitto e la memoria
La prima guerra mondiale fu la prima guerra “moderna”, la prima a dispiegare al più alto livello le capacità di distruzione di massa. Al termine degli anni di combattimento, il bilancio di vite umane sacrificate fu – anche per una nazione come l’Italia che pure si vantava di essere tra le vincitrici – elevatissimo. L’immane tragedia non lasciò indenne alcuna parte della nazione, né dal punto di vista territoriale né da quello sociale: tutte le città, tutti paesi, tutte le parrocchie, quasi tutte le famiglie ebbero i loro morti, mutilati, feriti, dispersi. Non può quindi stupire che il desiderio di “ricordare” gli avvenimenti e le persone nascesse quasi spontaneo dal profondo del cuore della gente.
Un desiderio di memoria che si tramutò con grande rapidità in riunioni, associazioni, organizzazioni, in richieste, proposte, progetti.
Nell’incandescente situazione sociale e politica del periodo postbellico, il “culto dei caduti” fu una questione centrale; intorno alle spoglie ancora calde si giocò uno scontro di fondamentale importanza sui simboli: i morti erano “martiri” della vittoria oppure “vittime” della guerra?
Nessuna parte politica – dalla destra alla sinistra – fu mai indifferente al richiamo degli innumerevoli lutti, ma sul loro significato la divaricazione fu radicale, e anzi progressivamente sempre più profonda e inconciliabile.
Il blocco politico-sociale che sarebbe poi sfociato nel regime fascista fece con rapidità una scelta che si rivelò vincente (e che anzi per certi versi venne a costituire un elemento fondativo dell’immaginario reazionario): declinò quel culto in chiave nazionalista - bellicista - maschilista.
Giorno dopo giorno, lapide dopo lapide, monumento dopo monumento, la celebrazione dei morti si trasformò in costruzione di un’ideologia nazionale asservita alle esigenze del nascente movimento fascista.
All’inizio la resistenza da parte del movimento socialista, cooperativo, libertario fu piuttosto forte: non pochi furono i monumenti eretti in memoria delle vittime al di fuori della retorica filofascista; ma col passare dei mesi le possibilità di opporsi all’omologazione di regime si ridussero progressivamente e una parvenza di “memoria” alternativa restò patrimonio delle donne (le madri, le spose, le figlie), protagoniste del “culto”, pur senza una vera possibilità di dettarne i riti.
La memoria della guerra fu un fenomeno di durata considerevole: dall’indomani della vittoria fin verso la metà degli anni Trenta, con un picco nella prima metà degli anni Venti.
Le esperienze comasche
I caduti in Lombardia furono ufficialmente 80.108. In provincia di Como 5.700 (a cui bisogna aggiungere, per avere il quadro completo dei morti intorno al Lario, i 2.937 del territorio lecchese, per un totale di 8.637).
A questi corrispondono non meno di 312 luoghi di memoria nell’attuale provincia di Como – intendendosi con tale dizione l’estensione amministrativa seguita alla separazione della provincia di Lecco. Si tratta di un complesso assai eterogeneo: monumenti, lapidi, cappelle, edifici vari.
La ricerca ha permesso di ricostruire una realtà storica assai complessa e anche contraddittoria.
Di notevole interesse dal punto di vista storico-artistico (l’insieme dei monumenti si configura come un vero e proprio museo all’aperto della scultura dei decenni tra anni Venti e Sessanta, con la presenza anche di grandi artisti), comunicativo (con i differenti modelli di retorica e di celebrazione), storico in senso stretto.
Anche a Como si possono quindi seguire le dinamiche nazionali ed europee del fenomeno, sia nella fondamentale affermazione dei modelli nazionalisti, sia nei tentativi di opposizione e ridefinizione della celebrazione (contrariamente a quanto si crede, non sono pochi gli esempi “comaschi” di monumenti alternativi), sia ancora nelle diverse fasi temporali, fino ai più recenti esempi che si propongono come opere sulla guerra per la pace.