Articoli della Stampa del 15 settembre 2001
Il vitalizio arriva dopo la morte
Era il risarcimento per due anni di lager nazista
Alessandro Mondo
Quando è mancato, nel luglio del ‘90, si è
portato nell’estremo viaggio fotografie, lettere, persino le tessere dei
lager che avevano segnato per sempre tanta parte della sua vita. In una
parola, la documentazione originale nella quale era riassunta la sua
condizione di internato e testimone delle atrocità naziste, a fronte
della quale non aveva ottenuto nemmeno lo straccio di un vitalizio.
Chissà cosa penserebbe oggi il signor Giuseppe Giordana, classe 1922,
sapendo che ad oltre dieci anni di distanza dalla sua scomparsa lo Stato
ha fatto ammenda. Perché sarà anche vero, come spiega pacatamente il
figlio, che la decisione di portare con sé quei documenti nasceva dal
desiderio di tumulare simbolicamente orrori vissuti in prima persona e
troppe volte riapparsi nei suoi incubi. Ma è difficile non pensare che
sulle estreme volontà non abbia pesato l’amarezza per la «distrazione»
di uno Stato scordatosi troppo in fretta dei sopravvissuti al naufragio
dell’ultima guerra. Ed è solo grazie alla pietosa disobbedienza di uno
dei figli, che ha fotocopiato le carte più significative, se oggi la
testimonianza del signor Giuseppe non è andata persa insieme a lui. Oggi
che la Corte dei conti di Torino ha riconosciuto agli eredi - assistiti
dall’avvocato Luca Procacci - il vitalizio.
Qualche centinaio di migliaia di lire al mese, negate per decenni a chi ne
avrebbe avuto veramente diritto da uno scherzo del destino: lo smarrimento
della pratica per la distrazione di qualche impiegato, seguito dieci anni
dopo dal riesame del caso e oggetto di un rimpallo fra i ministeri della
Difesa e del Tesoro.
Vicenda che riporta sotto i riflettori un fenomeno
dibattuto tardivamente nei tribunali, recuperato all’attenzione del
pubblico dalla controversia fra i governi italiano e tedesco
sull’inserimento degli ex internati militari nel risarcimento disposto
dalla Germania per chiudere i conti con una memoria che ritorna. Più di
quanto si credesse, a Roma come a Berlino, e nonostante sia l’età
avanzata dei reduci a chiudere sempre più spesso le partite in sospeso.
Non che il signor Giordana - decorato nel 1954 con la croce al merito di
guerra e destinatario di un diploma d’onore «al combattente per la
libertà d’Italia-internato militare non collaborazionista» firmato
nell’84 dal presidente Pertini - contasse più di tanto sul vitalizio.
Alla sua prima ed unica richiesta, presentata nel marzo di quell’anno al
ministero della Difesa, non era mai seguita risposta. Aveva preferito
lasciar perdere, accontentandosi della pensione minima maturata negli anni
di lavoro seguiti al suo ritorno dall’inferno. Era il 23 settembre del
‘43 quando venne catturato dalle truppe tedesche vicino a Zara con i
camerati arruolati nella sua divisione di fanteria. Prima destinazione: lo
«Stammlager IX C» di Bad Sulza, in Polonia, campo di sterminio diretto
dalle «SS», «dépendance» del più tristemente noto Buchenwald. Vi
restò per circa sei mesi, costretto a «mansioni» di ogni genere salvo
crollare tutte le sere nelle baracche infestate dai pidocchi sopravvissuti
agli ebrei polacchi che le avevano occupate prima degli italiani. «Nonostante
fosse molto restìo a parlare di queste cose ne ho sentite di tutte i
colori - racconta il figlio Michele -: malnutrizione, docce collettive
all’aperto, completamente nudi anche d’inverno, punizioni
ingiustificate, lavori pesanti o rivoltanti che solo la pietà rendeva
possibili». Come trasportare su carriole e scaricare nelle fosse comuni i
cadaveri irrigiditi dei «gasati», ebrei e non, resi incredibilmente
leggeri dagli stenti patiti in vita.
Era molto riservato su certe cose, il
signor Giuseppe, per quanto il muro di silenzio che aveva costruito
intorno a questi orrori venisse incrinato a sorpresa da disgusti o
inquietudini facilmente interpretate da quanti conoscevano il suo passato:
il categorico rifiuto delle patate in tavola o gli incubi che ne
tormentavano il sonno.
Dalla Polonia alla Germania: questa volta a
Friedrichrosa, presso il campo di lavoro «Staplak I A» diretto dalla
Wehrmacht. «Ho passato settanta giorni peggio che l’inferno - si legge
in una delle testimonianze fotocopiate -. Qui il lavoro era poco ma il
vitto era niente: sono diventato un’ombra, pesavo non più di 45
chili...». A spezzare quella vita da larva, proprio nel giorno del suo
ventitreesimo compleanno, l’arrivo dei russi nel luglio del ‘45.
Evento raccontato dal signor Giordana con un’obiettività ed una pietà
che le vessazioni subite non avevano compromesso: dal sollievo dei
prigionieri liberati al raccapriccio per le rappresaglie contro i civili
tedeschi da parte dei barbari liberatori con licenza di stuprare, mutilare
e razziare a piacimento. Ci vollero mesi prima che tornasse ai campi della
sua Pianezza, dove divenne agricoltore, poi marito e padre. Ci sono voluti
decenni prima che un vitalizio post mortem
rendesse finalmente omaggio alle sofferenze e allo spirito di
sopravvivenza di un uomo.
Tutti gli schiavi di Hitler
La Germania dice no ai militari prigionieri
Alessandro Mondo
Conto alla rovescia per
presentare nella sede prevista la richiesta di indennizzo
da parte degli schiavi di Hitler,
le persone ridotte in schiavitù o costrette al lavoro
forzato nei lager nazisti, altra cosa rispetto al
vitalizio erogato dallo Stato italiano: mancano poco più
di tre mesi alla scadenza, inizialmente fissata ai primi
di agosto e poi prorogata al 31 dicembre con decisione
unanime del Parlamento tedesco.
Decisione da leggersi alla
luce delle difficoltà organizzative e di accertamento che
comporta l’elevato numero di richieste - oltre 116 mila
quelle già inoltrate a vario titolo (lavoro forzato,
lavoro in stato di schiavitù, danni alla salute, perdita
di un figlio), la quota prevista supera le 200 mila - ma
soprattutto della trattativa finora improduttiva sul
destino degli ex militari (Imi). Se da un lato i tedeschi
continuano a sostenere che - in quanto prigionieri di
guerra - non hanno diritto al risarcimento, il fronte
delle associazioni degli ex internati mobilitate da tempo
rispondono di poter ampiamente dimostrare come a questa
categoria di prigionieri sia stato riservato dopo l’8
settembre un trattamento uguale se non peggiore a quello
dei civili. Risarcibili a tutti gli effetti, quindi, senza
alibi dell’ultima ora. Un braccio di ferro che si
consuma da tempo e che nemmeno la proroga della scadenza
sembra aver avviato ad esito positivo. Al contrario, fino
ad oggi, la Germania si è mostrata tetragona nel secco «no»
opposto agli ex Imi o ai loro congiunti.
In ballo, c’è
il fondo di 10 miliardi di marchi (10 mila miliardi di
lire) istituito dal Parlamento tedesco come forma di
risarcimento da dividere fra vittime ebree e non ebree dei
vari paesi. Ad occuparsi della raccolta delle richieste,
seguite dai necessari e complessi accertamenti,
l’Organizzazione internazionale per le Migrazioni (Oim)
delegata dalla Germania. Fra le novità legate alla
proroga della scadenza, già segnalate dalla Stampa, ce
n’è una che merita di essere ricordata: il Parlamento
tedesco ha infatti stabilito che - nel caso in cui un
richiedente sia deceduto dopo aver presentato regolare
domanda di risarcimento - i suoi eredi, entro sei mesi,
potranno inoltrare una nuova richiesta.
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